Lavori nello sport, ma nessuno lo sa
Ci siamo passati tutti.
Qualcuno ti chiede: “Che lavoro fai?”
Tu rispondi: “Collaboro con una società sportiva.”
E loro: “Ah ok, ma per vivere cosa fai?”
Boom.
Succede più spesso di quanto dovrebbe. Perché chi lavora nello sport dilettantistico viene ancora trattato come se facesse un hobby. Un passatempo. Un favore.
Ma i numeri raccontano un’altra storia. E se vogliamo cambiare davvero le cose, dobbiamo iniziare da qui: dare dignità all’occupazione sportiva.
I numeri veri dell’occupazione sportiva
Nel 2023, in Italia, più di 309.000 persone hanno avuto almeno un contratto come lavoratori sportivi.
Parliamo di co.co.co. legati ad associazioni e società dilettantistiche.
Cioè: allenatori, istruttori, educatori, dirigenti, preparatori.
E non è tutto.
Se guardiamo l’intero comparto sportivo, i lavoratori totali sono oltre 412.000.
Una città intera che tiene in piedi palestre, campi da calcio, corsi di nuoto, tornei, centri estivi.
Chi sono davvero questi lavoratori?
Spesso hanno meno di 35 anni.
Hanno un diploma, una laurea, a volte un’altra occupazione.
Ma la sera? All’allenamento. Il sabato? A segnare presenze. La domenica? A prendere pioggia in panchina.
Il 65% sono uomini. Il 35% donne.
L’età media? 37,7 anni.
Insomma: non ragazzini che fanno due ore di campo. Persone vere.
E la maggior parte lo fa con contratti fragili, compensi ridotti, spesso senza tutele.
Ma senza di loro, il settore semplicemente si fermerebbe.
Uno dei settori più labour-intensive d’Italia (ma a chi interessa?)
Nel gergo degli economisti si dice così: labour-intensive.
Vuol dire che per generare valore, serve il lavoro delle persone.
Nel caso delle attività sportive, per ogni milione di euro prodotto, ci vogliono più di 20 lavoratori.
Numeri ufficiali.
Per confronto: nella ristorazione ne bastano 16. Nella manifattura, solo 6.
Ma nessuno si sogna di dire che i ristoranti li mandano avanti i volontari. Allora perché nello sport sì?
Il lavoro sportivo ha bisogno di rispetto, non di scuse
Noi non diciamo che servano miracoli.
Diciamo che servono regole giuste, strumenti concreti, riconoscimento vero.
Perché l’occupazione sportiva non è solo un tema economico.
È un tema educativo, sociale, comunitario.
Ogni lavoratore sportivo che abbandona, lascia dietro di sé un vuoto per cento ragazzi.
Un campo chiuso. Un corso cancellato. Un dirigente in burnout.
Le società sportive non sono solo squadre. Sono imprese collettive
Tutte le settimane sentiamo parlare di crisi del volontariato.
Ma nessuno dice che in realtà le ASD e SSD sono vere e proprie imprese sociali, che assumono, formano, pagano, gestiscono.
Fanno tutto.
Ma senza ufficio del personale, senza revisore dei conti, senza HR.
Con un presidente che lavora otto ore in fabbrica e la sera corregge gli errori sul gestionale.
Con una segretaria che non ha ferie da agosto 2021.
Conclusione? Non è una battaglia di categoria. È una battaglia culturale.
Se un ragazzo lavora per due sere a settimana con i bambini della scuola calcio, sta lavorando.
Se una dirigente passa il weekend a sistemare le ricevute, sta lavorando.
Se un allenatore si prende ferie per accompagnare i suoi al torneo, sta lavorando.
Solo che non lo sa nessuno. E spesso nemmeno lui.
Ecco perché, per noi di Golee, parlare di occupazione sportiva è una priorità.
Non per fare la morale. Ma per dare voce a chi tiene in piedi lo sport italiano ogni giorno.
💡 I dati di questo articolo provengono dal Rapporto Sport 2024 di Sport e Salute. Se ti interessa approfondire altri temi legati a questi numeri, leggi anche i nostri articoli su sport nel Sud Italia, ripresa post-Covid, e atleti tesserati.